Wednesday, December 12, 2007

under.2.

Fra un respiro e l’altro l’apnea si faceva sempre più lunga. La sua pelle si ricropriva di perle, era liscia e umida come la foglia di un fiore di loto; brillava illuminata dalla luce lunare che filtrava dalla grata dello scantinato.
I suoi vestiti, per terra, sostavano sulle croste di intonaco che le ragnatele non erano riuscite a trattenere. Lui aveva fatto cadere solo il giaccone, i pantaloni erano piegati sulle scarpe. L’odore di benzina della moto che stava sul fondo si mescolava a quello di umidità, di Brugal e di sesso.
-Mi piace farti male.
Continuava a ripeterle nell’orecchio, mentre la spingeva contro il muro, con il capo appoggiato sulla sua spalla sinistra.
-Mi piace prenderti da dietro. E lei si contorceva senza fiato, i nervi tesi in spasmi di dolore e piacere, come un elastico, in un tira e molla senza tempo.
-Ti amo.
La muta risposta di lei, le faceva scivolare lacrime dagli occhi, la spingeva verso terra in una sorta di svenimento vivo, presente; un varco si apriva nel pavimento ed uno scivolo verticale la portava rapido al centro della terra. Tra le dita muffa e calcinacci strappati con le unghie, se li sarebbe portati all’inferno.
-Piangi... piangi amore mio, tutte le lacrime che hai. Fallo qua... metti la testa qua.
La teneva stretta, il volto di lei appoggiato sull’intreccio delle sue braccia, sprofondava a cercare un rifugio, un momento di appoggio sul quale abbandonare tutto il peso di quella confusione. Voleva parlare, ma una palla da biliardo le schiacciava le corde vocali. Voleva dire cose, tante; le riempivano la mente come migliaia di schegge di un’esplosione. Poi una volontà esterna ed estranea le aprì la bocca, la palla schizzò fuori evaporando, per far spazio ad una voce nuova, decisa, profonda.
-Voglio stare con te.
La lama di una wakizashi, tagliava mille petali di rose rosse, caduti dal cielo ad omaggiare la verità, mentre attendeva con la testa nella ghigliottina di capitolare a terra.
-Lo sai che non si può. Rivestiti. Andiamo.
Le sue mani compivano un gesto quotidiano, rimettevano i vestiti, senza che il suo cervello le comandasse, la sua mente era in un’intercapedine tra il vuoto e l’ovunque, vedeva frammenti d’immagini proprie e sconosciute. Le sue gambe attraversavano lo scantinato stretto al buio, con sicurezza, senza sfiorare niente, conoscevano la strada, non avevano bisogno di essere guidate, l’avrebbero portata a casa.
Appena fuori dalla porta, la parte volatile, che stava nello spazio, rientrò nella parte solida con un battito di ciglia, diede un ultimo sguardo a quel posto, mentre la porta si chiudeva; un bambino stava raccogliendo tutti i petali.
-Andiamo, disse lui.
-Aspetta.
Il bambino era in piedi, rideva e la salutava con la mano destra, nella sinistra il pugno chiuso stringeva una manciata di fiori.
-Arrivederci. Pensò tra sé e sé. L’infanzia sciupata nella quale aveva scelto di esistere veniva adesso a riscattarsi, le porgeva un volto maschile, perchè il cuore non le diventasse di pietra, per poter tornare a camminare nella luce del sole. Da donna.
-Vado! Disse.
Lasciandosi dietro la notte, i nascondigli bui, i fantasmi.

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