Wednesday, December 12, 2007

TAGLI

Interruzione della continuità di un corpo, operata dividendolo in tutto il suo spessore o incidendolo con maggiore o minore profondità mediante uno strumento affilato. Questa è una delle definizioni di taglio che si possono trovare sul vocabolario, ma ce ne sono almeno altre quarantuno nel mio dizionario, le ho contate.
Ci sono note sopra al rigo con un taglio in testa, libri mediocri con il taglio di grandi romanzi, tele tagliate che rappresentano l’assenza, tagli a rosetta per pietre preziose, vini dal taglio raffinato e droghe dal taglio scadente… banconote di piccolo o grande taglio…
Ci sono tagli che non provocano dolore, solo un fastidio localizzato, tipo quelli nati dalle scatole di tonno, che vanno giù, ma lasciano i lembi recisi così vicini da far credere che non sia successo niente, basta tappare tutto con un cerotto, stare attenti al sale e al succo di limone. Ci sono tagli che bruciano, tagli che fanno fatica a rimarginarsi, ci sono tagli che ti domandi :”perché?”
Ce ne sono altri che lasciano il segno, cicatrici. Hanno tutte un nome ed una storia da raccontare. Ci sono tagli superficiali e tagli profondi.
Tutti provocano la fuoriuscita di materia vivente che di lì a poco muore.
Ci sono poi tagli che non si vedono, ma fanno così male da piegarti in ginocchio, da generare sospensioni d’ossigeno, choc, arresti cardiaci. Io una volta mi sono tagliata la bocca dello stomaco, ho vomitato per ventisette giorni: parole, fotografie, sacchi di sabbia, resti di cena, odore di mare, bucato da stendere, tre facce e un sasso. Credevo che la vita mi sarebbe finita dentro al cesso. Sarebbe scivolata fuori come una voce liquida salita dalle viscere attraverso tubi, di reflusso, mi avrebbe riempito la bocca e non sarebbe bastato stringere forte le mandibole e serrare i denti a trattenerla, sarebbe filtrata dagli spazi, lasciando sul palato solo un non sapore. Un game over.
Andavo dal medico continuamente, e l’ometto fiducioso mi diceva:
“Passerà.”
È stato proprio così. Passato.
Un’altra volta mi si è tagliato in due il cervello, la parte destra sbraitava contro la sinistra, si gonfiava tutta per schiacciarla al lato. Le sue urla, sviluppando vibrazioni, raggiungevano i miei occhi e la vista a poco a poco si faceva lo schermo di un vecchio televisore scassato. All’inizio mi si sono mescolati tutti i colori, dopo un po’ sono spariti. Il tempo dilatato, scorreva tutto allo stesso ritmo, il mio cuore a ritmi diversi, a tratti un galoppo inarrestabile faceva tremare tutta la cassa. Le mie mani di ghiaccio non lo sapevano domare. Poi la fetta sinistra si è fatta un po’ di coraggio ed ha cominciato a sputare, sputi cromatici, sulla destra.
Per quarantatre giorni mi è uscito il sangue dal naso, ogni tanto qualcuno mi domandava:
“Che cos’hai?”
“Il cervello tagliato in due.” Rispondevo. In quei casi succedeva che la stanza si saturasse di un imbarazzante silenzio, se eravamo solo in due. Di brusio alle spalle, se eravamo in più di due. Di occhi abbassati, se tentavo di indagare con lo sguardo. Dopo la prima settimana allora ho deciso di rispondere:
“Fragilità capillare.”
Ora, però, pensandoci bene, credo che ricomincerò a dire che il contenuto del mio cranio è diviso a metà.
Mi piace troppo chiamare le cose con il loro nome.

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