Sunday, December 30, 2007

s.l.05

I poeti non fingono.
Anche le bugie, vivono veramente.

s.l.05

Tutti i miei figli morti
meritano un funerale.
Anche se non hanno avuto un nome.

s.l.05

Rotelle di valigie:
“Ai marciapiedi!”
come cavalli al trotto
verso la stazione.

s.l.05

Che fossi passata di lì, tutti
infondo lo sapevano, non sarei stata la prima
e non sarei stata neanche l’ultima.

s.l.05

Ai gridolini incontrollati dei bambini
si sovrappongono distorte voci
di mammine insofferenti.

s.l.05

Alle profondità sonore. Che vibranti mi contengono.
All’oscurità. Che nelle discese libere mi frena.
Alla luce. Che ritorna
a poco a poco in fasci, come raggi
di bicicletta al sole, mentre divento liquida
senza possesso alcuno, lascio alla mia carne
il piacere di disfarsi
e rimango
fatta di un solo battito d’amore, che da voce
al tuo saluto:
“ciao mare!”

s.l.05

Non provo neanche gelosia
tanto c’è una notte che è soltanto mia.

s.l.05

Ti lascio pezzi come arti, che
si staccano pesanti, ti lascio
vuoti che non voglio, fatti
di ferrei silenzi, ti lascio
le mie lacrime, che diventano
polari e ricoprono la terra, di
un ghiaccio vasto e frastagliato
ti lascio nella bocca: succo
di limone, ti lascio uno spartito
che suona un rumoroso disordine
-e perdonami
se nel chiudere la porta, dimentico
sempre di dirti grazie.

s.l.05

Piango e mangio.
Mangio e piango.
Poi mi viene un po’ da vomitare, ma
ti mando un messaggio.

O forse no.

s.l.05

C’è un tempo musicale che si stoppa
se ci spezziamo come legni, ma se tagli
la coda alla lucertola, lei non smette
di ballare, che la coda
poi ricresce e si trasforma, in lunghi
capelli di donna, che morbidi nel vento
suonano le note basse, di un canto popolare.

s.l.05

Madre dalla pancia di vetro
tienici con semplicità
nelle acque calme del tuo respiro.

s.l.05

Prenditi pure tutto il tempo
tanto restano solo diciassette secondi.

Alla fine del mondo.

Sunday, December 16, 2007

Domande:

cos'è una repubblica?

cos'è un governo?

cos'è una camera?

cos'è un senato?

cos'è un partito?

cos'è il proporzionale?

cos'è il referendum?

cos'è lo sciopero?

cos'è una manifestazione?

cos'è un'associazione?

cos'è un gruppo?

cos'è una famiglia?

cos'è un essere umano?

C'è una risposta profonda per ognuna di queste parole, che va aldilà di quella puramente semantica, ed è in modo profondo che noi esseri umani, dovremmo cominciare a darci delle risposte.

Nella società delle selezioni, delle mansioni, dei ruoli, delle competenze specifiche si è perso il piacere e il senso di essere una moltitudine, di essere variopinti, di essere ampi.

In un paese dove 100.000 persone in strada, non hanno più un valore, e dove altri 60 milioni di persone guardano nelle loro case(loro piccola porzione di spazio inviolabile) dentro gli schermi (loro piccolo spazio mentale, di ricerca e di arrichimento culturale) quello che succede fuori, filtrato da 1o, 100, 1000 veli; ancora ci si domanda:

cosa c'è che non va?

Allora a questa domanda si cominciano a dare risposte diverse, ognuno risponde per quello che riguarda il suo ruolo, la sua mansione, la sua competenza specifica, ovviamente senza curarsi della risposta altrui, generando così un non ascolto che si propaga in modo concentrico nelle orecchie e nei cuori, che a sua volta genere l'isolamento umano (che è molto di più dell'individualismo).

Siamo al centesimo piano del palazzo... oh oh... c'è un problemino:

mancano gli altri 99 piani! e anche le fondamenta.

A questo punto è proprio il momento di ricominciare da capo, dal singolo, da noi stessi; con dignità, con onore, con speranza. Riaprendo occhi e cuore. E' tempo di rivoluzione. Di RIVOLUZIONE UMANA.

Ognuno a suo modo. Senza falsità. Senza inganno.

Elsa Morante in "PICCOLO MANIFESTO DEI COMUNISTI" scriveva:

1. Un mostro percorre il mondo: la falsa rivoluzione.

2. La specie umana si distingue da quelle degli altri viventi per due qualità precipue. L'una costituisce il disonore dell'uomo; l'altra, l'onore dell'uomo.

3. Il disonore dell'uomo è il Potere. Il quale si configura immediatamente nella società umana, universalmente e da sempre fondata e fissa sul binomio: padroni e servi - sfruttati e sfruttatori.

4. L'onore dell'uomo è la libertà dello spirito.....

5. In quanto onore dell'uomo, per definizione la libertà dello spirito sia come espressione che come godimento, è dovuta a tutti gli uomini. Ognuno ha il diritto e il dovere di esigere per sé e per tutti gli altri la libertà dello spirito.

6. Tale esigenza universale non può essere attuata finchè esiste il Potere. Difatti è evidente che essa è negata in principio sia allo sfruttato che allo sfruttatore, sia al padrone che al servo.

13. .... Una folla consapevole che afferma la libertà dello spirito è uno spettacolo sublime. E una folla accecata che esalta il Potere è uno spettacolo osceno: chi si rende responsabile di una simile oscenità farebbe meglio a impiccarsi.

Wednesday, December 12, 2007

under.2.

Fra un respiro e l’altro l’apnea si faceva sempre più lunga. La sua pelle si ricropriva di perle, era liscia e umida come la foglia di un fiore di loto; brillava illuminata dalla luce lunare che filtrava dalla grata dello scantinato.
I suoi vestiti, per terra, sostavano sulle croste di intonaco che le ragnatele non erano riuscite a trattenere. Lui aveva fatto cadere solo il giaccone, i pantaloni erano piegati sulle scarpe. L’odore di benzina della moto che stava sul fondo si mescolava a quello di umidità, di Brugal e di sesso.
-Mi piace farti male.
Continuava a ripeterle nell’orecchio, mentre la spingeva contro il muro, con il capo appoggiato sulla sua spalla sinistra.
-Mi piace prenderti da dietro. E lei si contorceva senza fiato, i nervi tesi in spasmi di dolore e piacere, come un elastico, in un tira e molla senza tempo.
-Ti amo.
La muta risposta di lei, le faceva scivolare lacrime dagli occhi, la spingeva verso terra in una sorta di svenimento vivo, presente; un varco si apriva nel pavimento ed uno scivolo verticale la portava rapido al centro della terra. Tra le dita muffa e calcinacci strappati con le unghie, se li sarebbe portati all’inferno.
-Piangi... piangi amore mio, tutte le lacrime che hai. Fallo qua... metti la testa qua.
La teneva stretta, il volto di lei appoggiato sull’intreccio delle sue braccia, sprofondava a cercare un rifugio, un momento di appoggio sul quale abbandonare tutto il peso di quella confusione. Voleva parlare, ma una palla da biliardo le schiacciava le corde vocali. Voleva dire cose, tante; le riempivano la mente come migliaia di schegge di un’esplosione. Poi una volontà esterna ed estranea le aprì la bocca, la palla schizzò fuori evaporando, per far spazio ad una voce nuova, decisa, profonda.
-Voglio stare con te.
La lama di una wakizashi, tagliava mille petali di rose rosse, caduti dal cielo ad omaggiare la verità, mentre attendeva con la testa nella ghigliottina di capitolare a terra.
-Lo sai che non si può. Rivestiti. Andiamo.
Le sue mani compivano un gesto quotidiano, rimettevano i vestiti, senza che il suo cervello le comandasse, la sua mente era in un’intercapedine tra il vuoto e l’ovunque, vedeva frammenti d’immagini proprie e sconosciute. Le sue gambe attraversavano lo scantinato stretto al buio, con sicurezza, senza sfiorare niente, conoscevano la strada, non avevano bisogno di essere guidate, l’avrebbero portata a casa.
Appena fuori dalla porta, la parte volatile, che stava nello spazio, rientrò nella parte solida con un battito di ciglia, diede un ultimo sguardo a quel posto, mentre la porta si chiudeva; un bambino stava raccogliendo tutti i petali.
-Andiamo, disse lui.
-Aspetta.
Il bambino era in piedi, rideva e la salutava con la mano destra, nella sinistra il pugno chiuso stringeva una manciata di fiori.
-Arrivederci. Pensò tra sé e sé. L’infanzia sciupata nella quale aveva scelto di esistere veniva adesso a riscattarsi, le porgeva un volto maschile, perchè il cuore non le diventasse di pietra, per poter tornare a camminare nella luce del sole. Da donna.
-Vado! Disse.
Lasciandosi dietro la notte, i nascondigli bui, i fantasmi.

TAGLI

Interruzione della continuità di un corpo, operata dividendolo in tutto il suo spessore o incidendolo con maggiore o minore profondità mediante uno strumento affilato. Questa è una delle definizioni di taglio che si possono trovare sul vocabolario, ma ce ne sono almeno altre quarantuno nel mio dizionario, le ho contate.
Ci sono note sopra al rigo con un taglio in testa, libri mediocri con il taglio di grandi romanzi, tele tagliate che rappresentano l’assenza, tagli a rosetta per pietre preziose, vini dal taglio raffinato e droghe dal taglio scadente… banconote di piccolo o grande taglio…
Ci sono tagli che non provocano dolore, solo un fastidio localizzato, tipo quelli nati dalle scatole di tonno, che vanno giù, ma lasciano i lembi recisi così vicini da far credere che non sia successo niente, basta tappare tutto con un cerotto, stare attenti al sale e al succo di limone. Ci sono tagli che bruciano, tagli che fanno fatica a rimarginarsi, ci sono tagli che ti domandi :”perché?”
Ce ne sono altri che lasciano il segno, cicatrici. Hanno tutte un nome ed una storia da raccontare. Ci sono tagli superficiali e tagli profondi.
Tutti provocano la fuoriuscita di materia vivente che di lì a poco muore.
Ci sono poi tagli che non si vedono, ma fanno così male da piegarti in ginocchio, da generare sospensioni d’ossigeno, choc, arresti cardiaci. Io una volta mi sono tagliata la bocca dello stomaco, ho vomitato per ventisette giorni: parole, fotografie, sacchi di sabbia, resti di cena, odore di mare, bucato da stendere, tre facce e un sasso. Credevo che la vita mi sarebbe finita dentro al cesso. Sarebbe scivolata fuori come una voce liquida salita dalle viscere attraverso tubi, di reflusso, mi avrebbe riempito la bocca e non sarebbe bastato stringere forte le mandibole e serrare i denti a trattenerla, sarebbe filtrata dagli spazi, lasciando sul palato solo un non sapore. Un game over.
Andavo dal medico continuamente, e l’ometto fiducioso mi diceva:
“Passerà.”
È stato proprio così. Passato.
Un’altra volta mi si è tagliato in due il cervello, la parte destra sbraitava contro la sinistra, si gonfiava tutta per schiacciarla al lato. Le sue urla, sviluppando vibrazioni, raggiungevano i miei occhi e la vista a poco a poco si faceva lo schermo di un vecchio televisore scassato. All’inizio mi si sono mescolati tutti i colori, dopo un po’ sono spariti. Il tempo dilatato, scorreva tutto allo stesso ritmo, il mio cuore a ritmi diversi, a tratti un galoppo inarrestabile faceva tremare tutta la cassa. Le mie mani di ghiaccio non lo sapevano domare. Poi la fetta sinistra si è fatta un po’ di coraggio ed ha cominciato a sputare, sputi cromatici, sulla destra.
Per quarantatre giorni mi è uscito il sangue dal naso, ogni tanto qualcuno mi domandava:
“Che cos’hai?”
“Il cervello tagliato in due.” Rispondevo. In quei casi succedeva che la stanza si saturasse di un imbarazzante silenzio, se eravamo solo in due. Di brusio alle spalle, se eravamo in più di due. Di occhi abbassati, se tentavo di indagare con lo sguardo. Dopo la prima settimana allora ho deciso di rispondere:
“Fragilità capillare.”
Ora, però, pensandoci bene, credo che ricomincerò a dire che il contenuto del mio cranio è diviso a metà.
Mi piace troppo chiamare le cose con il loro nome.

ALBANIA.

Un vecchio sta andando al mercato. Tira una corda alla quale è legato un caprone. Piove forte, la bestia sopporta bene, il vecchio no. Si infilano in un autobus pienissimo e partono tutti nella pioggia uccidendo rane a migliaia. La ruggine ha mangiato le cerniere ed un fianco del bus. Mancano le porte e un vetro. Sul davanti uno striscione dice: forza milan.
Lui è in piedi e si appoggia con la mano allo schienale di un seggiolino, prova disagio, ma non è la per via della puzza e nemmeno per il caldo. È confuso. Un bambino seduto su uno dei sedili rialzati non ha smesso un attimo di fissarlo, mentre osservava il vecchio, la corda, il caprone, la strada piena di rane, il catorcio senza porte e un vetro. Lui non lo vede. Il bambino ha la pelle scura, un visetto rotondo, capelli neri di vernice, labbra di carne sugosa, due candelotti di moccio. Quello della narice sinistra incrostato sopra la pelle infiammata pare una ferita. Lui ha un volto tondo, labbra sottili, occhi verdi che guardano di sbieco, con un minuscolo diamante di luce vicino alle pupille, orecchie piccole si notano appena sotto le onde di capelli castani. Profuma. Un odore straniero: non di Albania.
La corriera si arresta di colpo, come una freccia che si pianta in un tronco, rincula un po’, i passeggeri oscillano avanti e indietro, il bambino balza giù dal sedile, raggiunge l’uscita in sette rapidi spostamenti, infiltrandosi, acqua che scorre tra braccia e ginocchia. Liquido. Lui sente appena un calore, dura pochissimo, ma la testa segue la corrente di quella sensazione e si ritrova con gli occhi fissi, sul marciapiede, dentro altri due occhi, neri. La corriera riparte. Gli occhi si sfuocano in una scia rossa. Lui porta la mano alla tasca dei pantaloni, non ha più il portafogli. Sorride.

Lei è seduta su una sedia, in piccolo corridoio stretto e lungo, davanti alla finestra aperta, guarda i tetti delle case, infilando di tanto in tanto lo sguardo nella ruga che lascia intravedere una pennellata di mare. Si sposta in avanti fino ad arrivare con le natiche sul bordo della sedia, si alza la gonna di panno morbido, con la mano destra, lentamente, fissando il mare. Le dita fredde scivolano sul ginocchio e sulla coscia, la mano si ferma. Due gabbiani prepotenti si rincorrono nel quadrato di cielo della finestra, lei li segue fin dove è possibile. Fino alla fine del quadrato. Solleva l’altra mano che penzolava al suo fianco, solleva minimamente il corpo e con tutte e due si sfila le mutande, semplicemente, in un unico gesto. Abbassa il capo, le guarda, inarca le sopracciglia, incurva il naso, in una smorfia capricciosa, sono sporche di sangue. Torna con gli occhi sul quadrato della finestra, immobile, il suo volto è privo di tensioni, lo sguardo fisso; passa un po’ di tempo e gli occhi bruciano, si riempiono di lacrime, sbatte le palpebre. Non bruciano più. Il sangue tiepido gocciola sul pavimento, silenzioso ad intervalli quasi regolari, stretti in un muto pomeriggio segreto lei e il suo sangue scorrono come il tempo. È ormai sera, l’arancione si stria di tinte più scure, la macchia a terra si è fatta più opaca ai lati, dentro il quadrato si tuffa uno stormo di rondini che velocemente scompare.
Lei si alza, le ginocchia cedono appena, va verso la finestra e la chiude; squilla il telefono. Sorride.

Friday, December 7, 2007

#6 R.E.D.

Molti erano i fiori
al mio funerale.

Poteva bastarne anche uno solo
che però non c’era.

#3 R.E.D.

Quando l’anima mi esce
si va a mettere sul ramo
dell’ulivo davanti alla finestra
della casa di mio padre.
Mi guarda con occhi da gufo
mentre rimane appollaiata.
Sono gli unici momenti
in cui provo compassione
per il mio corpo vuoto.

#4 R.E.D.

Fingi che vada tutto bene
come se il mondo non sapesse
che nella sua pancia nera
agitiamo senza sosta
le nostre anime corrotte.

#2 R.E.D.

Povera me.
Povera me.
Povera me.
Che noia mortale
la nenia quaternaria del lamento.

#1 R.E.D.

Nel buio afono è avvenuta
la vicendevole solenne vestizione
mentre la scogliera costruiva
una metallica silente attesa.

Poi, muto, anche il cielo si accende
per svelare i nostri corpi guerrieri
e le trecentotrentasei navi nemiche.

Il mare e il vento, ci regalano un granello
di irriproducibile non suono
e mi parla dignitosa
la scia armonica della tua spada.

-per l’immobilità non c’è più tempo-
forza
sono pronta.

#5 R.E.D.

Faremo l’amore un giorno.
Un giorno faremo l’amore.
Faremo l’amore di giorno.
Faremo del giorno l’amore.
Nel giorno faremo l’amore.
Sarà un giorno, assolutamente giorno.

BRINDISI

Apertura sipario. Peppe è seduto su una sedia, con un bicchiere in mano. Sguardo rivolto a terra.
Si alza dalla sedia leva il calice in alto sopra il capo. Solennemente.

Brindo a questa terra calda e ospitale. Brindo a questa terra di tradizioni e di passione, la stessa passione che da il colore a questo vino, un rosso prezioso… prezioso come il sangue che scorre nelle vene degli uomini che hanno fatto si che questa regione diventasse un vanto per il nostro paese… brindo all’amata… all’amata Sicilia!

Porta il bicchiere alle labbra. Sputa.

“Ma sa di mmerda!”

Buio.

È la peggior cosa abbia mai toccato il mio palato, non sono riuscito a mandarne giù nemmeno una goccia… certo potevo almeno fingere mi fosse andato di traverso… ma penso che sia semplicemente andata così. Il fratello di Don Ciccio tira fuori la sua bambina e senza neanche prendere la mira (sono talmente vicino) scarica giù all’addome tutto il caricatore…(simulando la pistola con un gesto) bang bang bang… bang bang bang… Non ho mai dato grandi prove di fedeltà alla famiglia… ma stavolta ho proprio cagato fuori dal secchio!
Mi guardo la camicia bianca e vedo che dai fori esce zampillando un liquido rosso a fontanella, escono precisi archi che disegnano parabole perfette… come se avessero sparato ad una botticella di rovere e quella pisciasse giù tutto un popò di nero d’avola… partorito da quelle colline dove alberelli di vite sgrondano grappoli di acini a buccia pruinosa, grigio-blu; di colore rosso… rosso amaranto con riflessi rubino; dal profumo di frutti maturi e di spezie… denso! Gradazione? Intorno ai 14 gradi!
Sono ‘na botte… si! ‘Na botte…di rovere di Slavonia.
E mi sento fiero di stare lì all’impiedi come ‘na botte.
Penso che sto morendo, ma non sono triste, sogno solo che tutti si facciano qui appresso a riempire i bicchieri dalle mie fontane, a bere di me come di un santo sceso dal paradiso a dare, a donarsi tutto, incondizionatamente, sogno di vederla tutta ridere questa gente con i bicchieri in mano alti, verso il cielo, ad urlare:
(gridando) “miracolo!...miracolo!”
E poi di guardare a Sante nella faccia e regalargli il mio ultimo ebete sorriso, come una grazia che quest’uomo m’ha fatto e non lo sa, a farmi morire così… come un martire!
Sante mi guarda mentre si rimette la bambina nei calzoni e questa mia espressione goduta sembra proprio non andargli a genio… forse ci sarebbe piaciuta di più una di quelle faccie… una di quelle faccie… che ti sei appena cagato dentro le mutande! Magari che tutti se la ridessero per la puzza… per la puzza di mmerda vera!

Buio. Prende il bicchiere e finge di seguire le parabole di sangue per riempirlo. Si porta il bicchiere alle labbra. Beve.

“Minchia che roba Don Cì… a dirlo può pure fare schifo, ma vi assicuro che se lo assaggiate… non ci potete mica credere da quanto è buono!”

Buio.

Allora. Don Ciccio si alza. Prende il suo bicchiere. Viene appresso ad una di quelle zampillate che escono dalla botticella. Riempie il bicchiere. Lo porta alle narici. Annusa.

Buio.

Con accento siciliano.
“Ti sei dimenticato di annusare ragazzo… ti sei dimenticato di annusare. Che la mmerda si sente dall’odore!”

Buio. Peppe è di nuovo seduto sella sedia stremato, respira a fatica.

E io che pensavo che a morire come un martire bastava il coraggio; mi dice così Don Ciccio e mi secca di dargli ragione… ma ripensandoci!

Mentre le luci si spengono lentamente parte il rumore di mitragliatrici di bombe e di grida…
Buio. Sipario.


Monday, December 3, 2007

M. #1

Quando il tuo silenzio
diventa una muraglia di rovi
le mie mani
si ritirano come la marea
lasciando una scia di spine, e sangue.

Quando il tuo silenzio
come acciaio, freddo brilla
tutto intorno
le mie mani si richiudono
come teste di lumaca
lasciando sulla scia argentata
granelli di rabbia, e di impotenza.

Sunday, December 2, 2007

bozzetti per una notte rosa

#3
Allora.. cosa posso fare?
Leggerò un libro. Sì leggerò un libro. Sono passati cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondia… cazzo vattene. No! No! Non ricominciare… mi lavo i capelli. Si mi lavo i capelli… è finito lo shampoo, porca… ancora! E adesso casa faccio? Mi faccio una tisana. Chiudo la porta, mi siedo e aspetto. Poi quando è pronta me la bevo… dopo mi fumo una sigaretta. Poi mi lavo capelli uguale, anche senza shampoo, tanto sono puliti… pronto?
Chi parla?
Chi cerca?
No.. Luca non abita più qui. Si lo può trovare a casa di sua madre…
Merda! Ma che sfiga! Ma non è possibile!
Ora faccio uno scatolone e butto via tutto… anzi brucio tutto… prendo la macchina, vado alla discarica e faccio un bel falò. Si anche il computer… no, anzi, il computer me lo tengo.

#1
Mi chiamano Madame e cucino molto bene, ma la mia specialità è decisamente far l’amore.
Lo faccio in tutti i modi, è il mio gioco preferito.
Ero ancora una bambina, quando conobbi l’uomo, mi sono esercitata con diversi individui. Ma il piacere vero l’ho scoperto in una notte stravagante, dentro una cantina buia. Mi ha strappato il cuore, con le mani sul mio seno, infiammato dalle labbra sigillate sulle aureole, mentre le sue ginocchia dischiudevano le ante delle mie cosce chiuse, per suonare con dita d’artista tutte le corde del mio sesso. Vibravo come un canto sul suo capo chino, esplodeva la mia nudità, bianco-latte, su i suoi vestiti che non caddero.
Lo rividi diverse volte. Mai nudo.
Sapeva cucinare però: l’estasi. Non si chiede la ricetta, ad un grande chef.

#2
Caro Tadeuz,
mi mancava all’inizio la mia gente, mi mancava la mia Polonia. Mi mancavi tu. Quando stavo a Pietroburgo non c’erano tele ed olii in grado di contenere il mio dolore. In grado di contenere la totale assenza del tuo odore. Parigi ha cancellato tutto, anche il tuo viso. Alle volte mi sforzo di ritrovare le tue labbra, il tuo naso, i tuoi occhi, dentro il baule di quei pomeriggi al fiume, quando facevamo il bagno nudi, con gli spilli nei piedi, per via dell’acqua gelata, ma non ci sei più. Quando iniziasti a svanire, io iniziai a dipingere tutte le ricche signore della capitale. Mi ama l’alta società, questa gente mi ama, perché do un peso al loro ego smisurato. Ed io amo loro, perché hanno cancellato il volto della mia sciocca solitudine.

#4
Stamani sono scesa allo stagno, ho attraversato il campo dei Bigini, per raccogliere i fiori. Ti ho fatto le viole e le primule, come ti piacciono a te. Le primule gialle intorno e le viole al centro. Poi sono tornata a casa e ho messo la pentola sul fuoco. Ho fatto i maccheroni, col sugo di polpette. Te ci vai matto per il sugo di polpette, infatti di maccheroni ne ho buttati giù due bei piatti, tanto io ne mangio pochi. Ti ho preso anche due panini all’olio alla bottega, per farci il buco incima e riempirli col sugo. Oggi questo marmo è tutto sporco, maledetti uccellacci, ma ce ne sarà posto dove andare a cagare! Ora vado alla fontana e vedo se trovo uno straccio, così ci do una bella pulita. La prossima settimana ti compro un vaso nuovo, questo ormai c’ha tutto l’erbino verde che non viene più via. Sei arrabbiato? Sei arrabbiato con me?
Rispondimi? Perché non mi rispondi?

Saturday, December 1, 2007

M. #2

Se puoi tornare domani
adesso ho da fare
le pentole al fuoco, sai?
Se puoi tornare
mi farebbe davvero piacere
non ho nemmeno niente da offrirti
adesso.
Se tornerai
forse sarà il momento
quando tornerai
un giorno, di dirselo
di dirsi finalmente addio.