Wednesday, December 12, 2007

ALBANIA.

Un vecchio sta andando al mercato. Tira una corda alla quale è legato un caprone. Piove forte, la bestia sopporta bene, il vecchio no. Si infilano in un autobus pienissimo e partono tutti nella pioggia uccidendo rane a migliaia. La ruggine ha mangiato le cerniere ed un fianco del bus. Mancano le porte e un vetro. Sul davanti uno striscione dice: forza milan.
Lui è in piedi e si appoggia con la mano allo schienale di un seggiolino, prova disagio, ma non è la per via della puzza e nemmeno per il caldo. È confuso. Un bambino seduto su uno dei sedili rialzati non ha smesso un attimo di fissarlo, mentre osservava il vecchio, la corda, il caprone, la strada piena di rane, il catorcio senza porte e un vetro. Lui non lo vede. Il bambino ha la pelle scura, un visetto rotondo, capelli neri di vernice, labbra di carne sugosa, due candelotti di moccio. Quello della narice sinistra incrostato sopra la pelle infiammata pare una ferita. Lui ha un volto tondo, labbra sottili, occhi verdi che guardano di sbieco, con un minuscolo diamante di luce vicino alle pupille, orecchie piccole si notano appena sotto le onde di capelli castani. Profuma. Un odore straniero: non di Albania.
La corriera si arresta di colpo, come una freccia che si pianta in un tronco, rincula un po’, i passeggeri oscillano avanti e indietro, il bambino balza giù dal sedile, raggiunge l’uscita in sette rapidi spostamenti, infiltrandosi, acqua che scorre tra braccia e ginocchia. Liquido. Lui sente appena un calore, dura pochissimo, ma la testa segue la corrente di quella sensazione e si ritrova con gli occhi fissi, sul marciapiede, dentro altri due occhi, neri. La corriera riparte. Gli occhi si sfuocano in una scia rossa. Lui porta la mano alla tasca dei pantaloni, non ha più il portafogli. Sorride.

Lei è seduta su una sedia, in piccolo corridoio stretto e lungo, davanti alla finestra aperta, guarda i tetti delle case, infilando di tanto in tanto lo sguardo nella ruga che lascia intravedere una pennellata di mare. Si sposta in avanti fino ad arrivare con le natiche sul bordo della sedia, si alza la gonna di panno morbido, con la mano destra, lentamente, fissando il mare. Le dita fredde scivolano sul ginocchio e sulla coscia, la mano si ferma. Due gabbiani prepotenti si rincorrono nel quadrato di cielo della finestra, lei li segue fin dove è possibile. Fino alla fine del quadrato. Solleva l’altra mano che penzolava al suo fianco, solleva minimamente il corpo e con tutte e due si sfila le mutande, semplicemente, in un unico gesto. Abbassa il capo, le guarda, inarca le sopracciglia, incurva il naso, in una smorfia capricciosa, sono sporche di sangue. Torna con gli occhi sul quadrato della finestra, immobile, il suo volto è privo di tensioni, lo sguardo fisso; passa un po’ di tempo e gli occhi bruciano, si riempiono di lacrime, sbatte le palpebre. Non bruciano più. Il sangue tiepido gocciola sul pavimento, silenzioso ad intervalli quasi regolari, stretti in un muto pomeriggio segreto lei e il suo sangue scorrono come il tempo. È ormai sera, l’arancione si stria di tinte più scure, la macchia a terra si è fatta più opaca ai lati, dentro il quadrato si tuffa uno stormo di rondini che velocemente scompare.
Lei si alza, le ginocchia cedono appena, va verso la finestra e la chiude; squilla il telefono. Sorride.

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